Serena Fineschi
Nuovo Tempo Sospeso, 2012
Millenovecentoventi grani di legno di gelso.
Secondo sopralluogo alla Filanda.
Ogni luogo ha la sua storia, una storia fatta di attimi, anche del solo ieri. Di ieri.
Oggi. Oggi, ho passeggiato a lungo per scoprire i resti della storia, alla ricerca di un particolare di questo luogo che mi desse l’accesso a un tempo nuovo. Un tempo nuovo, fatto di quello naturalmente trascorso, unito a quello che sto vivendo. Luca e Arturo mi avevano accennato la storia della Filanda, un importante bacino produttivo per tutta la zona durante la prima metà del 1900 che creava un indotto lavorativo per oltre 500 persone. Impressionante, guardando quello che è rimasto.
Mi guardo intorno, sento gli alberi muoversi e le voci in barattolo di Elena e Luca. È caldo, troppo caldo. E penso al calore opprimente subìto dalle “maestrine” che lavoravano nella filanda, costrette a operare in una temperatura che sfiorava i cinquanta gradi. Sapevo già di voler lavorare sul luogo, sulla sua storia e sulle persone che ne avevano fatto parte. Continuo a passeggiare, indossando una giacca troppo pesante. Guardo le grandi finestre su cui la luce e il vetro disegnano gli alberi esterni. Neppure un gelso. Luca me lo aveva detto: “Non è rimasto neppure un gelso, forse uno soltanto…”. Sono in un luogo che non sembra reagire al suo stesso ieri. Non reagisce per difetto di memoria. Voglio sapere di più, avere informazioni, suggestioni che mi portino in un nuovo tempo. Luca e Arturo erano stati chiari. Non ci sono documenti rimasti, solo una foto che ritrae le “maestrine” in gruppo, probabilmente davanti all’ingresso della filanda e non è certa nemmeno la possibilità di risalire a tutti i nomi delle tessitrici. La memoria è smarrita, il ricordo perduto con la scomparsa di tutti coloro che hanno vissuto qui il proprio ieri. Qui, nel pieno.
Mi allontano e guardo la filanda dalla pista di atterraggio. Un pieno architettonico, presente ieri e oggi. Un vuoto di ricordo, presente oggi. Volto le spalle alla filanda, accendo un’altra sigaretta per scandire il mio nuovo tempo sospeso.
Questo luogo sembra voler dimenticare se stesso, rimane solo ciò che si tramanda oralmente, nelle sbavature di un’immagine piena di sguardi fissi e mani congiunte. Un’immagine che non riconosce se stessa. Guardo tra le ombre dell’architettura e la ciminiera della filanda, tempo del lavoro, è ancora lì – nel mio nuovo tempo – presente, piena, imponente e silenziosa come un obelisco.
Torno allo studio. Voglio che un nuovo tempo mi porti a riflettere sul rapporto tra pieno e vuoto, tra memoria e oblio, tra tempo del ricordo e tempo del lavoro. Fisso a lungo dentro la realtà sconosciuta di quegli occhi, senza sentirmi sollevata, consapevole di avere occhi diversi. E cantano in coro le “maestrine”, con i loro sguardi pieni. E recitano il Rosario, le “maestrine”, per scandire il tempo del lavoro e proteggere se stesse. Si ricorda, dunque, senza certezze, mutando ogni volta la storia, creando un nuovo tempo, un nuovo angolo di storia. Decido così di voler ricordare, pregare, tornare a quella memoria incerta e donare un pensiero ai resti della storia, al tempo del lavoro, al tempo delle vite vissute.
Creare un nuovo tempo sospeso. Qui, nel pieno.